Corte europea dei diritti dell’uomo/Visto d’ingresso/Schengen/respingimento /Ric. n. 21329/18, J.A. and Others v. Italy- accertamento/lesione del divieto espulsioni collettive previsto dalla Convenzione.
Massima e/o decisione
Sintesi
I ricorrenti sono quattro cittadini tunisini che, nell’ottobre 2017, hanno lasciato il proprio paese con imbarcazioni di fortuna. Soccorsi in mare da una nave italiana, sono stati trasportati a Lampedusa e collocati per 10 giorni nell’hotspot dell’isola. Infine, sono stati tradotti dalle autorità italiane all’aeroporto di Lampedusa, dove denunciano di aver potuto solo molto velocemente prendere visione del rifiuto d’ingresso e dell’ordine di allontanamento, che sarebbero stati loro prodotti dalle autorità solo per poter ottenere le loro firme poche ore prima di essere rimpatriati in aereo il giorno stesso. Rappresentano che non è stato condotto alcun colloquio con le autorità, né sono state loro consegnate copie del “foglio di via”. Inoltre, rappresentano che i loro polsi sono stati assicurati con cinturini in velcro e di essere stati privati dei telefoni cellulari, restituiti loro solo una volta in Tunisia.
Innanzi alla Corte EDU, che ha accertato all’unanimità la sussistenza di tutte le violazioni, i ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 3 CEDU in relazione alle condizioni di vita nell’hotspot, dell’art. 5 della CEDU per essere stati arbitrariamente privati della libertà, nonché del divieto di espulsioni collettive di cui all’art. 4 del Protocollo 4 allegato alla Convenzione, per aver subito un c.d. respingimento differito, senza aver la possibilità di esporre la propria situazione individuale, né di accedere alla tutela giurisdizionale.
Per quanto riguarda la prima censura, la Corte ha accertato da numerosi elementi, incluse fotografie e rapporti di istituzioni e organizzazioni italiane e internazionali, che nel periodo di permanenza dei ricorrenti le condizioni di vita all’interno dell’hotspot erano talmente critiche da costituire un trattamento inumano e degradante. Si evidenziano, in particolare, il sovraffollamento, gli spazi ridotti, la carenza di servizi, di posti letto e, nel complesso, inadeguatezza e scarsità di igiene. A fronte di tali solidi elementi probatori sulla situazione del centro, il governo italiano non ha di contro fornito prove per ritenere che la condizioni di accoglienza, nel caso particolare dei ricorrenti, fossero soddisfacenti e, conseguentemente, la Corte ha ritenuto di poter accertare la sussistenza della violazione dell’art. 3 CEDU.
Per quanto concerne la censura riguardante la privazione della libertà, la Corte ha ritenuto applicabile (nei 10 giorni dall’arrivo dei ricorrenti all’hotspot fino alla traduzione in aeroporto) soltanto la prima parte dell’art. 5, par. 1, lett. f), CEDU, che ammette la privazione della libertà per impedire l’ingresso illegale sul territorio degli Stati contraenti. Non è invece applicabile la seconda parte della disposizione, che riguarda i casi di privazione di libertà della persona da espellere o estradare, atteso che non è stato sostenuto dallo Stato convenuto né altrimenti dimostrato, che l’ingresso dei ricorrenti in Italia fosse stato rifiutato, che fosse stato emesso un ordine di rimpatrio o che fosse stata avviata l’azione di espulsione prima del giorno di esecuzione del rimpatrio in aereo (e per le poche ore precedenti alla sua esecuzione). Al fine di valutare se il trattenimento nel centro di Lampedusa sia avvenuto nel rispetto del parametro convenzionale, la Corte esamina nel dettaglio la funzione degli “hotspot” (par. 85 e ss.). La Corte osserva che, in base agli orientamenti stabiliti dall’agenda europea sulla migrazione della Commissione europea del 13 maggio 2015 e della tabella di marcia del Ministero dell’interno italiano del 28 settembre 2015, gli hotspot non erano stati previsti (almeno all’epoca dei fatti) per funzionare da centri di trattenimento, ma piuttosto come strutture per l’identificazione dei migranti, da trasferire poi nelle strutture adeguate a seconda dei casi. Sul punto, il governo non ha dimostrato che il quadro normativo italiano, comprese le pertinenti norme di diritto dell’UE, fornisse all’epoca istruzioni chiare in merito agli aspetti sostanziali e procedurali del trattenimento o di altre misure privative della libertà delle persone in situazioni analoghe a quelle dei ricorrenti; né che l’hotspot di Lampedusa dovesse essere classificato come CIE, dove i migranti, a determinate condizioni, potevano essere legalmente trattenuti ai sensi della legislazione nazionale. La Corte rileva poi che diversi rapporti indipendenti e di organizzazioni nazionali e internazionali descrivono l’hotspot di Lampedusa come un centro chiuso, con sbarre e cancelli, da cui i migranti non possono allontanarsi nemmeno dopo essere stati identificati. Pur riconoscendo che nel tempo il quadro giuridico e la situazione complessiva possono essere mutati, la Corte conclude che, all’epoca dei fatti, i ricorrenti sono stati sottoposti a una privazione della libertà, peraltro in condizioni contrarie all’art. 3 CEDU, che non era regolata dalla legge, nemmeno per quanto riguarda la predeterminazione di un termine massimo di trattenimento, né soggetta allo scrutinio di un giudice, ed è conseguentemente arbitraria, in violazione dell’art. 5, par. 1, lett. f), della CEDU.
Infine, la Corte esamina il profilo riguardante il rimpatrio forzoso dei ricorrenti, partendo dalle stesse criticità evidenziate all’epoca dal Garante italiano delle persone private della libertà e dal Senato della Repubblica italiana in merito alle pratiche dei respingimenti differiti e inerenti alle modalità di firma dei fogli di via e di conduzione delle interviste attraverso “questionari” (par. 110-112). La Corte osserva che il governo italiano, pur sollecitato in tal senso, non ha prodotto la documentazione riguardante l’identificazione e l’allontanamento dei ricorrenti, salvo (e nemmeno in tutti i casi) alcuni moduli standardizzati, dai quali non si evince che un esame della situazione individuale dei ricorrenti sia stato effettivamente esperito dalle autorità. Inoltre, il governo non ha dimostrato che gli interessati abbiano avuto una concreta opportunità di ricorrere avverso gli ordini di espulsione, in considerazione del brevissimo lasso di tempo tra l’emissione degli stessi, la loro ostensione ai ricorrenti e l’esecuzione del rimpatrio, nonché in considerazione delle allegazioni dei ricorrenti che denunciano di non averne ben compreso il contenuto, di non averne ricevuto copia, né tantomeno di aver potuto contattare un avvocato per ricevere assistenza legale, essendo peraltro stati privati dei telefoni cellulari. La Corte EDU infine osserva che la stessa Corte costituzionale italiana, nel 2017, aveva sollecitato l’intervento del legislatore sul regime giuridico del respingimento differito con accompagnamento alla frontiera, considerando che tale modalità esecutiva limita la libertà personale e richiede pertanto di essere disciplinata conformemente all’art. 13, co. 3, della Costituzione. Alla luce di tali considerazioni, la Corte ritiene accertata la lesione del divieto di espulsioni collettive previsto dalla Convenzione.
La Corte ha infine riconosciuto a ciascuno dei ricorrenti 8.500 euro per danni non pecuniari e 4.000 euro per le spese.
