Nota a Cassazione Civile, Sezione I, 30 giugno 2025, n. 17702
Premessa metodologica: la tutela giurisdizionale nell’ordinamento dell’immigrazione post-riforma
La presente analisi si inserisce nel quadro della complessa problematica attinente la tutela giurisdizionale nell’ambito dell’esecuzione delle misure coercitive a carico dello straniero, con particolare riguardo al procedimento di convalida del trattenimento ai sensi dell’art. 14 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. In tale contesto, la sentenza della Corte di Cassazione, Sezione I civile, 30 giugno 2025, n. 17702, si propone come momento di significativa sistematizzazione ermeneutica, affrontando una pluralità di questioni che si collocano al crocevia tra diritto interno, diritto dell’Unione europea e standard convenzionali in materia di diritti fondamentali.
L’occasione processuale è offerta da un ricorso avverso la convalida del trattenimento di una cittadina di nazionalità brasiliana (assistita e difesa dall’Avv. Rosa Emanuela Lo Faro del foro di Catania), disposta sulla base di un provvedimento prefettizio di espulsione, notificato in lingua italiana in assenza di traduzione e redatto in un linguaggio tecnico non accessibile al destinatario. L’udienza di convalida si era svolta nei locali della Questura in assenza del cancelliere, e in tale sede la ricorrente aveva manifestato la volontà di presentare domanda di protezione internazionale. Il Giudice di Pace di Catania aveva rigettato la doglianza della difesa, ritenendo legittima la procedura. La Corte, di contro, accoglie il ricorso, affrontando in maniera sistematica tutti i profili controversi emersi in sede di legittimità.
Il rilievo della pronuncia non risiede unicamente nella ricostruzione tecnico-giuridica del procedimento di convalida, ma si estende a una riflessione più ampia sulle garanzie minime che devono connotare l’esercizio della giurisdizione in ambito migratorio. La decisione si segnala infatti per aver riaffermato, con particolare rigore, la natura non derogabile dei diritti linguistici, la necessità di una effettiva conoscenza del contenuto dell’atto da parte dello straniero, e la legittimità della manifestazione di volontà di chiedere protezione internazionale anche nella fase giudiziaria, senza formalismi inibitori.
A livello metodologico, il S.C. adotta un approccio integrato, che rifiuta tanto le rigidità formali quanto le escamotages giustificazioniste spesso adottate dall’Amministrazione sulla base di prassi informali. Il trattenimento amministrativo, pur formalmente qualificato come misura di natura non penale, ha effetti sostanziali equivalenti alla privazione della libertà personale ed in ragione di ciò deve essere soggetto a un controllo giurisdizionale autentico e dotato di piena efficacia, secondo quanto richiesto dall’art. 13, comma 3, Cost., nonché dagli artt. 5 e 6 della CEDU e dagli artt. 47 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Questa consapevolezza emerge con chiarezza nell’impostazione adottata dalla Corte, che rilegge l’istituto della convalida non come atto di estrazione notarile o meramente ricognitivo, ma come vera e propria giurisdizione di garanzia, nella quale l’A.G. deve valutare la regolarità procedimentale e l’assenza di vizi sostanziali che rendano illegittima la privazione della libertà. Tale prospettiva si pone in linea con l’evoluzione del diritto dell’immigrazione da disciplina eccezionale a diritto delle garanzie, che integra strumenti nazionali e sovranazionali nella costruzione di uno statuto protettivo coerente con i principi dello Stato costituzionale di diritto.
La sentenza n. 17702/2025 si colloca dunque in un momento storico in cui il contenzioso in materia di trattenimento e di espulsione rappresenta uno dei terreni più sensibili e delicati del rapporto tra diritti fondamentali e politiche di gestione del fenomeno migratorio. In questo scenario, la giurisprudenza di legittimità è chiamata a un ruolo propulsivo, capace non solo di correggere gli errori delle prassi, ma anche di fornire criteri interpretativi certi e conformi ai parametri sovranazionali. La funzione nomofilattica, pertanto, si coniuga con una funzione di garanzia sostanziale, che trova nel principio della dignità umana – di cui la tutela giurisdizionale è manifestazione concreta – il suo fondamento irrinunciabile.
1) La mancata partecipazione del cancelliere o dell’assistente giudiziario all’udienza di convalida svolta in Questura non determina la nullità del verbale, né integra violazione dell’art. 13, comma 3, Cost.
Nel primo snodo motivazionale della sentenza in commento, la Corte di Cassazione affronta una questione formale di significativa rilevanza sistemica, ossia la legittimità dell’udienza di convalida del trattenimento dello straniero svolta presso la Questura in assenza del cancelliere o dell’assistente giudiziario. Il Collegio afferma, con chiarezza, che tale mancanza non incide sulla validità dell’atto né comporta la nullità del verbale d’udienza, in quanto la funzione svolta dal cancelliere ha natura meramente integrativa e non costitutiva del procedimento giurisdizionale. In questa prospettiva, il provvedimento di convalida, reso dal giudice all’esito dell’udienza, conserva piena efficacia e non si pone in contrasto con l’art. 13, comma 3, Cost. , che subordina ogni misura restrittiva della libertà personale a un controllo giurisdizionale tempestivo e non delegabile.
La Corte richiama a sostegno di tale ricostruzione la propria giurisprudenza consolidata, segnatamente le pronunce Cass. civ., Sez. I, n. 924 del 1978 e n. 9389 del 2007, nelle quali si afferma che la presenza del cancelliere costituisce un elemento formale destinato a garantire la verbalizzazione e la regolarità dell’udienza, ma che non risulta indispensabile ai fini dell’esistenza e della validità dell’atto giurisdizionale. La funzione notarile e certificativa del cancelliere, infatti, si colloca a valle della funzione decisionale, che resta integralmente concentrata nella persona del giudice, unico soggetto titolato a esercitare il controllo di legalità sulla misura privativa della libertà.
Questa impostazione, benché coerente con un orientamento giurisprudenziale risalente e costante, solleva rilevanti interrogativi dal punto di vista teorico e costituzionale. Infatti, non si può ignorare che il trattenimento dello straniero, sebbene qualificato formalmente come misura amministrativa, incide nella sostanza sul diritto fondamentale alla libertà personale, protetto da una riserva di legge e di giurisdizione assolute. In tale contesto, ogni elemento procedurale che garantisca la trasparenza, la verbalizzazione fedele e la certezza delle modalità con cui si è svolta l’udienza dovrebbe essere considerato funzionale alla legittimità del procedimento e, quindi, suscettibile di incidere sulla sua validità.
L’assenza del cancelliere o dell’assistente giudiziario può determinare un vulnus alla ricostruibilità dell’udienza e alla verificabilità, anche ex post, del rispetto delle garanzie procedimentali essenziali. In particolare, l’assenza di una figura terza rispetto al giudice e alle parti può rendere più complesso dimostrare eventuali irregolarità, carenze nella verbalizzazione, omissioni linguistiche o vizi nella raccolta delle dichiarazioni. Si tratta di aspetti non meramente formali, bensì sostanziali, ove si consideri che l’udienza di convalida è, di fatto, il primo e talvolta l’unico momento in cui lo straniero può comparire dinanzi a un giudice e far valere le proprie ragioni, spesso in condizione di fragilità linguistica, emotiva, psicologica e giuridica.
Alla luce di ciò, una parte della dottrina ha sottolineato come sarebbe opportuna una rilettura costituzionalmente orientata della normativa vigente, in cui la presenza del cancelliere non sia considerata un mero adempimento burocratico, ma una componente necessaria del giusto procedimento. Una tale interpretazione si porrebbe in linea con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, sancito anche dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che impone non solo la garanzia di accesso al giudice, ma anche il rispetto delle regole procedurali e delle forme minime di contraddittorio.
In definitiva, la sentenza n. 17702/2025, pur ribadendo l’assenza di nullità derivante dalla mancata presenza del cancelliere, si colloca all’interno di una concezione minimalista della funzione del verbalizzante. Tuttavia, in chiave critica, si può osservare come l’esigenza di economicità procedurale, pur rilevante in un sistema ad alta densità di flussi e di contenziosi, non possa mai tradursi nella compressione delle garanzie essenziali. Alla luce della centralità del principio di legalità e della necessaria effettività del controllo giurisdizionale, potrebbe risultare auspicabile un intervento legislativo chiarificatore o un’evoluzione della giurisprudenza verso una maggiore valorizzazione della presenza del cancelliere quale presidio autonomo delle garanzie processuali, in particolar modo nei procedimenti di trattenimento che si svolgono in luoghi diversi dall’aula di giustizia e in assenza delle normali condizioni ambientali del processo.
2) La funzione del cancelliere letta in coerenza con i principi di efficienza e di economia processuale sanciti dagli artt. 57 e 58 c.p.c.
La Suprema Corte, inoltre, collega la non invalidità dell’udienza di convalida, svoltasi in assenza del cancelliere, ai principi generali di efficienza e speditezza del processo, sanciti dagli artt. 57 e 58 del codice di procedura civile. In tale prospettiva, la partecipazione del cancelliere non è ritenuta necessaria alla validità dell’atto, poiché non espressamente prevista a pena di nullità né dai codici processuali, né dalle norme speciali in materia di trattenimento amministrativo. La funzione attribuita alla figura del cancelliere viene così ricondotta nell’alveo di una collaborazione tecnica e documentale che non interferisce sul piano dell’esercizio della giurisdizione, bensì si limita ad assistere l’attività giudiziale senza alterarne la sostanza.
È evidente l’intento della Corte di evitare derive formalistiche che possano ostacolare l’operatività del sistema, specialmente in ambiti ad alta intensità procedurale come quello delle misure restrittive della libertà personale in materia di immigrazione. La valorizzazione della funzionalità e dell’efficienza si inserisce in una tendenza giurisprudenziale sempre più orientata a privilegiare l’effettività delle garanzie sostanziali rispetto al rispetto rigido delle forme. Una tale impostazione, sul piano assiologico, si fonda sul principio per cui il processo non può essere concepito come un fine in sé, ma come uno strumento volto alla realizzazione della giustizia nel caso concreto.
Tuttavia, se letta in modo acritico, questa prospettiva rischia di ridurre la funzione del cancelliere a un mero supporto secondario, trascurando che il ruolo documentale e certificativo di tale figura non è privo di rilievo per la legittimità complessiva del procedimento. L’assenza del cancelliere potrebbe, infatti, compromettere la possibilità di ricostruire in modo attendibile lo svolgimento dell’udienza, in particolare nei contesti decentrati come le Questure, ove non vi sono garanzie strutturali assimilabili a quelle dell’aula di giustizia. L’art. 58 c.p.c., nel prevedere che il cancelliere assista il giudice nel corso delle udienze e ne curi la verbalizzazione, attribuisce a questa figura un compito essenziale nel garantire la trasparenza e la verificabilità del processo. Il principio di efficienza processuale, infatti, non può mai essere invocato per giustificare un abbassamento del livello di garanzie, soprattutto in procedimenti che riguardano diritti fondamentali.
Sul piano teorico, emerge una tensione tra due valori costituzionali di pari rango: da un lato, l’efficienza e la celerità della giustizia; dall’altro, la garanzia del giusto processo e del contraddittorio, soprattutto nei casi in cui è in gioco la libertà personale. L’art. 111, comma 1, della Costituzione, nel prescrivere che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo”, impone una lettura delle norme processuali che tenga conto anche della composizione dell’udienza e della completezza della verbalizzazione. In assenza di verbalizzante, tale equilibrio può essere messo in discussione, in quanto manca una figura terza incaricata di registrare le dichiarazioni rese, annotare le istanze difensive e certificare l’effettivo esercizio del diritto di difesa, soprattutto in situazioni – come quelle che si verificano nei locali della Questura – in cui le condizioni materiali sono spesso sfavorevoli al pieno dispiegarsi delle garanzie difensive.
Sotto un ulteriore profilo, è legittimo interrogarsi se una lettura sistematica dell’art. 14, comma 5, del d.lgs. n. 286/1998, coordinata con gli artt. 57 e 58 c.p.c., non imponga, almeno in via interpretativa, un onere di verbalizzazione garantita da soggetto terzo rispetto al giudice, come elemento indefettibile di regolarità procedurale. La funzione di documentazione delle udienze, tanto più quando esse si svolgono in ambienti non prettamente giurisdizionali bensì intranei alla P.A. procedente, rappresenta un elemento imprescindibile per la tutela delle situazioni soggettive coinvolte, e non può essere interamente rimessa alla memoria o alle note del giudicante, né tanto meno affidata alla spontaneità delle parti.
In sintesi, pur condividendo l’orientamento giurisprudenziale volto a evitare l’irrigidimento formale della fase di convalida, è doveroso evidenziare – in una prospettiva de jure condendo – l’opportunità di una riforma normativa che chiarisca la necessità di garantire la verbalizzazione dell’udienza da parte di un soggetto distinto dal giudice, anche al fine di rafforzare la trasparenza del procedimento e la ricostruibilità dell’attività svolta.
3) La tutela linguistica: profili sostanziali e processuali nel sistema riformato. Il diritto alla traduzione degli atti è ancorato all’art. 13, comma 7, del d.lgs. n. 286/1998 e all’art. 8 della Direttiva 2013/33/UE
Il secondo punto affrontato dalla Corte nella sentenza in epigrafe investe un aspetto cruciale del diritto alla difesa: la garanzia linguistica, intesa come diritto dello straniero a comprendere integralmente e consapevolmente gli atti del procedimento che incidono sulla sua libertà personale. La Corte afferma, con riferimento all’art. 13, comma 7, del d.lgs. n. 286/1998, che ogni atto amministrativo o giurisdizionale relativo all’espulsione, al trattenimento o alla convalida deve essere tradotto in una lingua comprensibile al destinatario, obbligo che costituisce una garanzia sostanziale e ineludibile del diritto al contraddittorio effettivo.
La norma citata prevede espressamente che lo straniero destinatario di un provvedimento espulsivo “abbia diritto di essere informato, in una lingua a lui comprensibile, dei motivi del provvedimento e dei mezzi di impugnazione”. Si tratta di un precetto che, pur essendo inserito in un contesto normativo interno, deve essere letto in stretta connessione con la disciplina eurounitaria, in particolare con quanto previsto dall’art. 8 della Direttiva 2013/33/UE, la quale stabilisce che “gli Stati membri provvedono affinché i richiedenti ricevano le informazioni relative ai loro diritti e doveri in una lingua che essi comprendano o si suppone possano comprendere”.
Questo principio ha acquisito, negli ultimi anni, una rilevanza crescente tanto nella giurisprudenza nazionale che in quella europea. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha ribadito, in numerose occasioni, che la conoscenza della lingua in cui sono redatti gli atti procedimentali è presupposto imprescindibile per l’effettività dei diritti di difesa, e che tale conoscenza non può essere presunta sulla base di valutazioni sommarie o empiriche (cfr. CGUE, causa C-560/14, M v. Minister for Justice and Equality). Analogamente, la giurisprudenza della Corte EDU ha affermato, nell’ambito dell’art. 5 § 2 della CEDU, che l’informazione in una lingua comprensibile è elemento costitutivo del diritto alla libertà personale, poiché senza comprensione reale il diritto all’impugnazione diventa illusorio.
In tal senso, il principio della comprensibilità linguistica si configura come snodo fondamentale per la piena consapevolezza delle conseguenze giuridiche degli atti e per l’esercizio concreto delle facoltà difensive. L’informazione tradotta deve riguardare tanto il contenuto del provvedimento quanto gli strumenti di tutela attivabili, i termini per ricorrere, le autorità competenti e le possibili conseguenze derivanti dall’inottemperanza. È evidente che una conoscenza generica, imperfetta e deficitaria della lingua italiana non è sufficiente a garantire tale livello di consapevolezza, soprattutto quando si tratta di soggetti provenienti da contesti culturali, educativi e giuridici profondamente differenti.
La Corte, in linea con questi principi, evidenzia che la comprensione idiomatica non può essere valutata in termini presuntivi o con riferimento a meri indici comportamentali, come la capacità di rispondere in lingua italiana a domande semplici o l’apposizione della firma su un modulo. Una valutazione seria dell’idoneità linguistica deve fondarsi su criteri oggettivi, eventualmente supportati dalla presenza di un interprete o da una certificazione linguistica qualificata. In caso contrario, il rischio è quello di legittimare procedimenti gravemente viziati, fondati su atti mai compresi realmente dal destinatario.
Viene ponderate una distinzione netta, giuridicamente fondata e pedagogicamente coerente, tra competenza orale e alfabetizzazione funzionale scritta. La prima attiene alla capacità di interagire in contesti comunicativi immediati, talora in forma rudimentale, con frasi semplici e lessico elementare. La seconda, invece, presuppone una padronanza ben più articolata della lingua, tale da consentire la comprensione di testi tecnici, l’interpretazione corretta di formule giuridiche, la valutazione consapevole di obblighi, rimedi e conseguenze derivanti dagli atti amministrativi. In altri termini, la competenza scritta è un’abilità autonoma, complessa e non desumibile automaticamente dalla padronanza dell’oralità.
In questa prospettiva, la funzione della traduzione assurge al rango di condizione sostanziale di validità dell’intero procedimento, in quanto presidia il diritto all’informazione, al contraddittorio, alla difesa tecnica e, in definitiva, alla tutela giurisdizionale effettiva. L’omessa traduzione in una lingua effettivamente conosciuta integra un vizio radicale, che comporta la nullità degli atti successivi, ove la comprensione risulti solo apparente o presunta.
Parte della dottrina ha correttamente osservato che la garanzia linguistica deve essere intesa come parte integrante di un più ampio principio di uguaglianza nell’accesso alla giustizia, laddove gli stranieri in condizione di vulnerabilità, soprattutto quelli appena giunti sul territorio nazionale o trattenuti in centri di permanenza, non sono in grado di orientarsi nel sistema giuridico e rischiano di subire una compressione automatica dei loro diritti: la traduzione non è solo uno strumento di comunicazione, ma una condizione di parità sostanziale, la cui omissione genera un’inaccettabile asimmetria processuale.
Alla luce di quanto sopra, si può affermare che la Corte , con la posizione espressa, compie un passo decisivo verso una giurisdizione interculturale, capace di leggere le garanzie costituzionali e sovranazionali alla luce della concreta vulnerabilità linguistica dello straniero. Il processo di convalida, come ogni procedimento che incide sulla libertà personale, non può prescindere dal presupposto della piena consapevolezza. Il silenzio dell’ordinamento sul punto non può tradursi in una negazione della tutela. È anzi la giurisprudenza a dover costruire, con interpretazioni coerenti e armonizzate, i ponti normativi necessari a impedire che le differenze linguistiche diventino diseguaglianze giuridiche.
Il Collegio, inoltre, affronta il delicato tema dell’impiego di lingue veicolari – come l’inglese, il francese o lo spagnolo – nei procedimenti ex art. 14 del d.lgs. n. 286/1998, affermando che l’uso di una lingua veicolare è legittimo solo in via eccezionale e subordinatamente alla dimostrazione, da parte dell’Amministrazione, della oggettiva impossibilità di reperire un interprete qualificato nella lingua effettivamente conosciuta dal destinatario dell’atto. In mancanza di tale prova, la notificazione in lingua diversa da quella comprensibile risulta viziata e produce l’invalidità del provvedimento di cui è parte integrante.
Trattasi di principio di assoluto rilievo sistemico e costituzionale, che valorizza l’idea di comprensibilità reale come requisito strutturale della validità dell’atto e non come adempimento marginale o surrogabile. In assenza di una comprensione effettiva da parte dello straniero, l’atto giuridico – anche se formalmente redatto e notificato – rimane, nella sostanza, non conoscibile. Di conseguenza, esso non è idoneo a produrre effetti giuridici vincolanti, in quanto privo del carattere essenziale dell’intelligibilità, che rappresenta il fondamento dell’autodeterminazione consapevole, della difesa informata e dell’accesso pieno al giudice.
La Corte richiama, in proposito, due importanti precedenti, Cass. civ., Sez. I, n. 5837/2022 e n. 24015/2020, nei quali si enuclea che la notificazione in lingua veicolare, pur diffusa e largamente compresa a livello globale, non può mai surrogare la lingua effettivamente conosciuta dallo straniero, se non in presenza di un accertamento motivato e rigoroso dell’impossibilità di tradurre l’atto in tale lingua specifica. L’onere probatorio incombe integralmente sull’Amministrazione procedente, la quale non può invocare prassi organizzative, emergenze numeriche o mere consuetudini linguistiche per legittimare una simile deroga.
La posizione assunta dalla Cassazione si pone in aderente continuità con la ratio delle Direttive 2013/32/UE e 2013/33/UE, le quali prevedono un diritto soggettivo alla comunicazione linguistica individualizzata e non standardizzata. La logica della “lingua franca”, accettabile in contesti informali o tra pari, non può trovare applicazione in procedimenti amministrativi o giurisdizionali che incidono su diritti fondamentali. In ambito procedurale, la lingua non può mai essere funzionale solo all’Amministrazione, bensì dev’essere lo strumento attraverso cui il soggetto destinatario è messo in grado di comprendere, valutare, contestare o aderire a quanto disposto.
Questa affermazione è adeguata e coerente con i principi espressi anche a livello convenzionale, segnatamente con l’art. 5 § 2 della CEDU, secondo cui ogni persona privata della libertà deve essere “informata in una lingua a lei comprensibile” dei motivi del suo arresto e dei rimedi disponibili. Analogo principio è sancito, in via generale, dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che garantisce il diritto a un ricorso effettivo e a un processo equo, presupponendo la piena comprensione della situazione giuridica da parte dell’interessato.
Dal punto di vista critico, la posizione della Corte va accolta con favore, in quanto segna un punto fermo rispetto a una prassi amministrativa piuttosto discutibile, che tende talvolta a notificare atti in lingua inglese, francese o spagnola sulla base della sola constatazione di una loro presunta maggiore diffusione. Si tratta di un approccio che, pur fondato su logiche di semplificazione, rischia di tradursi in una esclusione silenziosa dello straniero dal procedimento, compromettendo l’effettività della difesa e, con essa, la legittimità dell’intero iter amministrativo o giudiziario.
È inoltre da escludersi che l’Amministrazione possa giustificare l’uso di una lingua veicolare sulla base di valutazioni empiriche, quali la nazionalità, la lingua ufficiale del Paese di origine o la provenienza geografica. L’unico parametro rilevante è la lingua effettivamente compresa dal soggetto interessato, la quale deve essere accertata in concreto, anche tramite il suo stesso riferimento, e non desunta in via astratta. Qualsiasi altra interpretazione si porrebbe in contrasto con il principio di personalizzazione del procedimento, riconosciuto dalla Corte di Giustizia come criterio guida in materia di protezione internazionale (CGUE, causa C-560/14 cit.).
Si può quindi concludere che la notificazione in lingua veicolare costituisce una deroga eccezionale e non una regola residuale, subordinata all’assoluta necessità e alla prova documentata dell’irrealizzabilità di una traduzione conforme. In mancanza di tale prova, l’atto è da ritenersi radicalmente nullo per difetto di un presupposto legittimante. L’uso scorretto o arbitrario di una lingua veicolare equivale, in definitiva, a un’ingannevole surrogazione della comunicazione effettiva, con effetti deleteri sul piano della legalità procedimentale e della tutela dei diritti fondamentali.
4) La domanda di protezione internazionale può essere validamente formulata anche in sede di udienza di convalida: l’effettività del diritto d’asilo tra formalismi e garanzie
Uno dei profili più significativi affrontati nella sentenza in commento concerne la possibilità per lo straniero di manifestare la volontà di chiedere protezione internazionale anche in sede di udienza di convalida del trattenimento, e la validità di tale dichiarazione come atto introduttivo della procedura di asilo. La questione, apparentemente procedurale, assume invece una rilevanza esiziale, poiché incide direttamente sull’effettività del diritto fondamentale d’asilo, riconosciuto dall’art. 10, comma 3, della Costituzione, dagli artt. 18 e 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951.
La Corte afferma, con estrema chiarezza, che la manifestazione di volontà di chiedere asilo resa dinanzi al giudice nel corso dell’udienza di convalida produce effetti giuridici vincolanti e non può essere ignorata o considerata irrilevante dall’Amministrazione. Essa rappresenta a tutti gli effetti l’inizio della procedura di riconoscimento della protezione internazionale, imponendo alle autorità il rispetto degli obblighi di registrazione, trasmissione e sospensione automatica del provvedimento espulsivo eventualmente già adottato.
Tale posizione trova riscontro normativo nell’art. 6, par. 1, secondo comma, della Direttiva 2013/32/UE, che stabilisce che lo Stato membro garantisca la possibilità di presentare la domanda d’asilo “il prima possibile”, anche in forma orale, dinanzi a qualsiasi autorità competente. Il testo della norma è volutamente ampio e non impone alcun vincolo formale o sequenziale per la validità della domanda, con la conseguenza che durante l’udienza di convalida il giudice può ricevere la dichiarazione di volontà dello straniero di chiedere asilo, e che tale dichiarazione deve essere trasmessa senza indugio al Questore, il quale è tenuto a darne immediata comunicazione alla Commissione Territoriale.
È quindi da escludere ogni diversa impostazione (come verificatosi nel caso concreto) che tenda a considerare “tardiva” o “strumentale” la dichiarazione resa in udienza, sulla base del solo presupposto che non sia stata formulata al momento dell’ingresso sul territorio nazionale o nel primo contatto con la polizia di frontiera. Come rileva correttamente la Corte, la protezione internazionale è un diritto soggettivo assoluto, e la relativa domanda non è soggetta a decadenze, preclusioni o requisiti formali rigidi, pena la compromissione del diritto di accesso all’asilo e la violazione del principio di non-refoulement.
L’approccio garantista adottato dalla Cassazione si contrappone a prassi amministrative diffuse, che spesso delibano la manifestazione della volontà in udienza come irrilevante o comunque inidonea a sospendere l’esecuzione dell’espulsione. In alcune circolari o prassi informali delle Questure si tende infatti a subordinare l’avvio della procedura d’asilo alla sottoscrizione di moduli predefiniti presso gli sportelli immigrazione, ignorando la validità della richiesta orale resa in sede giudiziale. Si tratta di una prassi lesiva della normativa eurounitaria, in quanto subordina l’accesso alla protezione a formalità non previste dal legislatore europeo né da quello nazionale.
Inoltre, la presunta “strumentalità” della dichiarazione – spesso invocata dall’Amministrazione per escludere la sospensione dell’esecuzione del rimpatrio – non può essere sussunta in via automatica. Secondo il dictum della Corte, tale valutazione rientra nella competenza esclusiva della Commissione Territoriale, che è l’unica autorità deputata ad esaminare nel merito la fondatezza o meno della richiesta d’asilo. Il giudice ordinario, e in particolare il Giudice di Pace nel procedimento di convalida, non può compiere nè espletare alcuna valutazione discrezionale sulla genuinità, credibilità o attendibilità della domanda, ma deve limitarsi a prenderne atto e a disporre la trasmissione agli organi competenti.
Questa affermazione ha rilevanti implicazioni sistemiche, poichè valorizza la struttura multilivello del procedimento di protezione internazionale, chiarendo la distinzione tra fase giurisdizionale e fase amministrativa. Il giudice dell’udienza di convalida non è chiamato a pronunciarsi sulla protezione in senso sostanziale, ma solo ad accertare l’avvenuta dichiarazione di volontà e a garantirne gli effetti sospensivi: qualsiasi anticipazione di giudizio da parte del giudice della convalida rischierebbe di invadere le attribuzioni riservate ad altra autorità e, soprattutto, di pregiudicare indebitamente la posizione del richiedente, sottraendogli l’effettività delle tutele previste dal diritto dell’Unione.
La statuizione in esame rafforza una visione inclusiva, elastica e garantista del diritto d’asilo, in cui la forma della dichiarazione è subordinata alla sua sostanza, e in cui il diritto di chiedere protezione è concepito non come una possibilità residuale, ma come diritto inalienabile della persona, esercitabile in qualsiasi fase del procedimento, anche in sede giurisdizionale, dove la funzione della giurisdizione non si esaurisce nel controllo della misura detentiva, ma si estende alla presa d’atto di situazioni giuridiche che attivano immediatamente garanzie superiori, quali l’asilo e la protezione sussidiaria.
Ogni tentativo di restringere o condizionare l’accesso alla procedura di protezione si traduce in una violazione dell’art. 3 CEDU, dell’art. 33 della Convenzione di Ginevra, e dell’art. 18 della Carta di Nizza, norme che impongono un dovere positivo di protezione nei confronti di chiunque si trovi sul territorio dello Stato e tema, anche solo potenzialmente, un rischio di trattamento inumano o degradante.
Bibliografia essenziale
Normativa nazionale
- Costituzione della Repubblica Italiana: art. 10, co. 3; art. 13, co. 1 e 3; art. 111.
- D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (T.U. Immigrazione): artt. 13, 14 co. 5, 13 co. 7.
- D.Lgs. 18 agosto 2015, n. 142: artt. 5 co. 5; 6; 21.
- D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115: artt. 82–83.
- Codice di procedura civile: artt. 57–58; 382, ult. comma.
Normativa UE
- Direttiva 2013/32/UE: artt. 6 par. 1–2; 12; 33.
- Direttiva 2013/33/UE: artt. 8–11.
- Carta dei Diritti Fondamentali UE: artt. 1, 18, 47, 52.
Convenzioni internazionali
- Convenzione di Ginevra 1951, art. 33.
- Protocollo di New York 1967, art. I.
- CEDU: art. 3; art. 5 § 2.
Sentenze della Corte di Cassazione
- Cass., Sez. I civ., ordinanza n. 9389 del 23 aprile 2007 – verbalizzazione valida anche senza cancelliere.
- Cass., Sez. I civ., ordinanza n.24027 del 30 ottobre 2020 – obbligo di verifica della reale comprensione linguistica.
- Cass., Sez. Vi civ., 12 ordinanza n. 626 del 12 gennaio 2023 – nullità per traduzione in sola lingua veicolare
- Cass., Sez. I civ., ordinanza n. 20070 del 13 luglio 2023 – divieto di sindacato sulla fondatezza della domanda d’asilo.
- Cass., Sez. I civ., ordinanza n. 15 del 02 gennaio 2024 – giudice di convalida e sua funzione ricognitiva.
- Cass., Sez. I civ., 30 giugno 2025, n. 17702 – pronuncia principale, oggetto del commento.
Dottrina e riviste
- Paolo Morozzo della Rocca, Immigrazione, asilo e cittadinanza, Maggioli, 4ª ed. 2023.
- ASGI, Manuale sulla protezione internazionale e altre forme di tutela, Torino 2019.
- Gianfranco Schiavone (a cura di), Diritto, immigrazione e cittadinanza, FrancoAngeli 2022.
- Laura Montanari, Diritti e tutele degli stranieri, Giappichelli 2021.
- Rivista Diritto, Immigrazione e Cittadinanza (ASGI), ISSN 1826‑9587.
